"...L’obiettivo è stato quello di creare un lavoro artistico estremo, che non tenesse conto delle convenzioni (sia della poesia che della canzone) e che affrontasse alcuni importanti temi filosofico-esistenziali, senza paura di non piacere a un pubblico. Puri e liberi. Senza compromessi. Con la convinzione però che, trattandosi di temi che riguardano la nostra esistenza e quindi tutti noi, avrebbero bene o male incontrato il favore di molti, se non di tutti..." da Vi diremo le parole che non volete sentire

domenica 15 novembre 2015

"Un Giorno Verde" di Piero Olmeda - Ma è proprio così, è questa la verità, la sua assenza?

Il sole tagliava il tavolo in due parti, una buia dove a tratti vedevo il bagliore degli occhi di S., una abbagliante dove io stavo seduto a cercare di non dire quello che doveva essere detto.
Il giorno era cominciato con un'alba tersa e mentre il sole saliva nel cielo limpido ero lentamente affondato in un mare opaco e lucente.
La luce verde accarezzava la parte sinistra del mio viso, la parte destra immersa in uno scuro verde smeraldo. Il mio occhio destro era inquieto e passava dal bicchiere al viso di S., poi si fissava sulle sue mani perfettamente immobili sulla tovaglia. Non c'era nulla da fare. La decisione era già stata presa. Ero già sulla cima, ora dovevo scendere fino a valle, fino al mare. Raggiunta la decisione sembrava quasi inutile metterla in atto, ma sapevo che dovevo adagiarmi sul fondo di quel mare, dovevo recitare quelle frasi già dette un milione di volte e voltare la pagina già scritta per vedere la pagina ancora buia dall'altra parte.
Cominciai così: “S., è finita.”
Dopo averlo detto mi sentii già meglio. Ora che avevo gettato il sasso verso quelle acque buie dovevo solo aspettare l'effetto: sarebbe rimbalzato, affondato, avrebbe attirato i pesci più feroci o si sarebbe semplicemente sgretolato in sabbia cadendo nel fondo insieme a tutti i sassi inutili?

Cercai di incrociare gli occhi di S., ma non si mossero di un millimetro, la bocca non si aprì, le mani ancora ferme sul tavolo. In quel preciso momento arrivò il cameriere a chiedere se volevamo un caffè. Risposi di no e improvvisamente un profumo mi colpì con forza, tanto che mi mancò il respiro.
A volte un ricordo arriva con l'odore intenso di un profumo che apre corridoi richiusi dal tempo e in un attimo ci troviamo in una luminosa stanza della memoria che sembrava sparita nel nulla. In quella stanza c'era un albero in fiore, ed io ero abbracciato a S. nell'ombra, e lei mi chiedeva: “Pensi che ci sia la vita dopo la morte?” Io mi misi a ridere, ma lei insisteva, voleva che lo dicessi, quello che pensavo. Togliendomi una formica che lentamente stava salendo sulla pelle nuda del mio avambraccio dissi: “No.” Mi guardò come se le avessi appena detto che il nostro amore era finito, con i due occhi grandi che mi guardavano con meraviglia, dicendo “E allora a cosa serve tutto questo?”
Mentre il cameriere se ne andava via interdetto lei si chinò sul tavolo, i seni quasi a sfiorare la tovaglia, il profumo diventato un odore acre e intenso, e disse: “Sei diventato come tutti gli altri.”
Non era cominciato come tutti gli altri amori. Era stata un'ebbrezza lucida che mi aveva colpito subito lì sulla strada con una meraviglia che non avrei mai pensato di poter provare. Anche se si poteva considerare un'illusione, come forse lo è la bellezza, un'idea che la nostra mente crea per essere capaci di vivere, fu con entusiasmo che mi lasciai trascinare dalle sue dolci acque. Non mi venne in mente altro, mentre giravo la testa verso di lei e lei a sua volta la girava verso di me, che dire un nome a caso: “Marta” o “Giulia” o qualsiasi altro nome mi fosse venuto in mente in quel momento. Il bello fu che lei stette al mio stesso gioco e mentre io mi inventavo un'improbabile seconda vita dove facevo un diverso lavoro, avevo diversi amici e altre convinzioni, lei rispondeva al mio gioco spingendosi fino ai limiti del romanzo.
Ora che le restituivo lo sguardo non c'era più gioco, il silenzio aveva inondato le nostre vite, e qualcosa di osceno, la verità, era rivoltato fuori allo sguardo di tutti.
Mi accorgevo ora più di prima di quanto fosse bella la linea incavata che dai bordi del naso scendeva ai limiti delle labbra. Per la prima volta la potevo vedere da fuori e imbarazzato guardavo di nascosto gli altri clienti per vedere se anche loro vedevano.
La mattina mi ero alzato ancora in preda ad un sogno non finito. Nel sogno un angelo era seduto accanto a me e mi guardava in silenzio. Le sue grandi ali bianche si stendevano per tutta la stanza oscillando leggermente. Poi improvvisamente un'ala mi aveva sfiorato quasi coprendomi in una luce scura e soffice e l'angelo mi aveva detto: “Guarda nello specchio.” Aveva continuato a ripetere la stessa frase per un tempo infinito mentre io non sapevo che cosa rispondere. Mi ero svegliato stanco come mi ero addormentato, una luce tagliente che entrava dalla finestra creando dal nulla nuvole dorate di polvere. Non era la luce di tutti gli altri giorni, non era bianca o rosa, allegra o triste, rinfrescante, bagnata o calda, ma era più potente di tutte le luci di tutte le albe che avevo vissuto, riusciva a entrare fin negli angoli più nascosti, riusciva a curvare e percorrere i disegni dei più oscuri labirinti fino a svelare quegli interstizi dove mai luce era arrivata, dove forse mai lo sguardo si era posato.
Guardandola non potevo fare a meno di pensare a quella luce verde che aveva inondato tutti gli oggetti, che era scesa dolorosamente attraverso l'iride nera e che ora scorreva ineliminabile nelle vene. Di fronte al suo specchio di carne mi capitò di dire le cose verdi che non avrei mai pensato di poter dire e che forse non dovrebbero mai essere pronunciate: “Vedi questi anni sono passati come il soffio breve di un sogno, ma che cosa c'era di vero? Mi hai mai amato?”
Le ultime parole si stavano spegnendo con una leggera eco e già vedevo il suo viso cambiare per impercettibili spostamenti, le ciglia sbattere una volta, la bocca piegarsi leggermente e la testa inclinarsi un po' a destra. Nello specchio del suo viso non riuscivo a vedere un'immagine o perlomeno un frammento vagante di verità. Stava forse per scoppiare a a ridere?
Eppure c'era stato un tempo durante il quale sapevo leggere perfettamente quello che pensava. C'era stata una volta che la luce accecante del deserto entrava dalla finestra aperta illuminando di puro bianco il corpo nudo di S. Non eravamo noi che giravamo attorno al mondo, ma era tutto il mondo che girava attorno al centro dei nostri corpi. Allora sembrava che la verità fosse a un passo, pronta ad essere colta come indolenti si raccoglie un frutto. Non lo facevamo, perché volevamo assaporare il sapore dell'attimo prima della pura estasi. Lì vagavamo sfiorando la pelle cotta dal sole e pronta all'ultima sublimazione.
Ma ora che l'ombra copriva il suo viso senza nasconderlo, mi chiedevo: “Ma eravamo veramente ad un passo? Avremmo forse potuto andare al di là?” E nel momento in cui me lo stavo chiedendo mi accorgevo che ormai quell'attimo era passato per sempre e non sarebbe tornato mai più.
Non c'era una Macchina del Tempo dietro l'angolo con la quale ritornare trafelati verso la collana di errori del passato per tagliare ridenti il filo che li teneva in uno scroscio di perle tintinnanti sul pavimento della vita. Come sarebbe stato bello e tenero incontrare se stessi ai crocevia e insultando il caso e il libero arbitrio indirizzare la propria vita verso la catena di eventi che avrebbe ineluttabilmente condotto verso la felicità! E ora che avevo detto “Mi hai mai amato?” l'attimo da cambiare era proprio lì, a pochi secondi di distanza indietro nel tempo, mi sembrava quasi di poterlo afferrare ma già la corrente lo trascinava via vorticosamente senza alcuna possibilità di riprenderlo, di fermarsi e tornare indietro.
Ora c'era il silenzio ma quali rumorose cascate d'acqua scendevano dal cielo il giorno che morì suo padre. Mentre allora la sorreggevo tenendola per un braccio sembrava che il mondo stesso fosse sull'orlo dello svenimento. Il colore dei visi e delle cose si stava prosciugando ineluttabilmente, scolava lento sulle sabbie che sostenevano i nostri passi ondeggianti. Sul suo volto non c'era dolore, ma una sorta di meraviglia, come se ad un tratto fosse sul punto di esclamare: “Ma è proprio così? E' questa la verità, la sua assenza?” Il corteo seguiva incerto la luce nera della bara, che oscillava come una nave in una tempesta d'aria, come se il corpo immobile al suo interno avesse un'idea di dove andare, avesse in mente un percorso complicato ma ineluttabile verso qualcosa. Ma che cosa?
Il tintinnio dei bicchieri al ristorante mi sembrò improvvisamente troppo forte, così mi guardai intorno ma nelle parole dette ai tavoli vicini, nei movimenti delle posate, non riuscivo a ricavare nessun senso.
Le parole vennero come una marea che non potevo arrestare e mentre le dicevo mi sembrava ancora di ripetere una commedia scritta all'inizio dei tempi e via via recitata nei secoli con sempre meno convinzione. Come erano invece piene di luce quasi brucianti le parole all'inizio del nostro amore, che ogni volta che venivano pronunciate lasciavano dietro di sé una risonanza come se gli alberi, le nuvole e l'aria stessa le ripetessero senza fine.
Quando la guardai, dopo aver detto quello che doveva essere detto, lei mi restituì lo sguardo quasi con orrore. Mi alzai come imbarazzato, mentre un bicchiere cadeva frantumandosi sul pavimento, mi avviai verso l'uscita con passo incerto, l'impressione viva degli sguardi di tutti sulla mia nuca. Aprii la porta e l'esplosione di aghi della luce mi colpì penetrandomi nel profondo degli occhi. Mi guardai intorno. La luce bianca pulsante di un mondo vergine rivestiva ogni cosa, la ruota aveva girato ancora una volta, ero morto un'altra volta e infine rinato al mondo. Come è, come è sempre stato, come sempre sarà.

© 2008 Piero Olmeda
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